Non c’è modello welfare senza sindacato.
Il mondo del lavoro è cambiato e con esso il ruolo dei rappresentanti dei lavoratori, che risulta indebolito rispetto al passato.
Le radicali trasformazioni del mondo del lavoro, dalla Gig economy alle forme contrattuali atipiche, sembrano aver indebolito il ruolo dei sindacati, che come altri corpi intermedi appaiono in crisi di rappresentanza.
D’altra parte, i sociologi dicono che, nel tempo di una generazione, il 60% dei posti di lavoro tradizionali andrà perso. La competizione globale che si è innestata ha portato a una evoluzione importante non solo delle tecnologie, ma anche delle modalità di gestire le relazioni professionali. La partecipazione e il coinvolgimento dei dipendenti, così come la tutela del loro benessere, dipende sempre di più dalle aziende stesse.
Anche per i sindacati, dunque, si rende necessario un ripensamento del proprio ruolo: una via per riappropriarsi della rappresentanza potrebbe essere offerta proprio dal welfare aziendale, che è, a oggi, il principale ambito di confronto tra aziende e dipendenti.
Il primo ambito di intervento è senz’altro quello legato alla qualità del welfare stesso, che passa da un’attenta analisi dei bisogni dei dipendenti e arriva sino all’accompagnamento di essi nelle scelte di destinazione del proprio beneficio.
Nell’ottica della riforma delle pensioni, la prima difficoltà della generazione di lavoratori che andrà in pensione tra 15-20 anni sarà proprio legata al reddito da pensione, che sarà molto più basso dell’attuale retribuzione.
Esso, dunque, non sollecita “né in un senso, né in un altro, ma informa il lavoratore dei suoi diritti e anche dei suoi doveri in merito. Risponde a ogni sua domanda, tuttavia non entra nel merito di una decisione che è privata”.
Andare oltre al benessere momentaneo
I più ‘fragili’, da questo punto di vista, sono i giovani, la cui crescente precarietà lavorativa li ha indotti a concentrarsi sui benefici immediati, anche del welfare, più che su una visione prospettica.
Il tasso di precariato tra i giovani è endemico e ha toccato percentuali che giungono alla quasi totalità del tasso di occupazione. Ciò che si sta creando non è buona occupazione: non è stabile, non garantisce diritti e produce solo doveri che rasentano la vessazione. Occorre trovare inquadramenti contrattuali tali da poter garantire anche un futuro pensionistico ai nostri giovani.
Per non parlare poi dell’enorme massa di lavoro ‘opaco’, in cui certe aziende fanno firmare contratti per svolgere mansioni che nulla hanno a che vedere con ciò che è scritto sulla carta, con ovvie conseguenze in termini stipendiali e contributivi.
Per questi giovani senza prospettive certe, il welfare aziendale, se opportunamente indirizzato, potrebbe davvero diventare fortemente di supporto e integrazione a quegli ammortizzatori sociali previsti dallo Stato per cui, pure, ci sono sempre meno risorse. Perché questo avvenga, è però necessario che il welfare erogato sia di qualità e non si limiti a quei benefit che, pur utili e apprezzati, apportano un benessere del tutto momentaneo.
La spinta per la qualità sociale del welfare aziendale
Perché sussista questa ‘qualità sociale’ del welfare, il sindacato può dare il suo contributo fattivo nel progettare il welfare aziendale.
Il welfare aziendale ha preso sempre più piede, diventando una voce pesante nei bilanci delle imprese che hanno intuito la vera portata di quello che, per noi, è un investimento prima ancora che un costo.
Tuttavia, il tema non va circoscritto a un mero discorso economico. Di fatto, il welfare aziendale è la traduzione plastica di come la stessa azienda concepisca il lavoro e di come dia valore ai suoi dipendenti: “Il welfare aziendale, se si vuole, è la filosofia concreta del come si vuole vivere il fare impresa”.
Infatti, ogni scelta – dal rimborso delle spese mediche per i figli dei dipendenti ai viaggi studio, dai corsi di inglese agli abbonamenti per il trasporto pubblico – indica il rispetto dell’impresa verso i suoi dipendenti. Siamo ben consapevoli che non si tratta di beneficenza, perché il fine ultimo di un’impresa è produrre ricchezza, ma rappresenta un investimento sul benessere dei lavoratori, con ricadute sulla famiglia e quindi anche sul territorio stesso.
Eppure se, per esempio, un genitore riesce meglio a conciliare i tempi di vita e lavoro, oppure se lavoratore alle prese con la cura di un familiare è messo nelle giuste condizioni, è un valore aggiunto per tutti. Per la famiglia, in primis, ma anche per la stessa azienda. Il benessere passa anche da qui. Ecco perché con il welfare aziendale si gioca un nuovo ruolo del sindacato.
La trattativa di secondo livello, incardinata nel contratto nazionale, è la vera sfida che ha di fronte un sindacato”: Il mondo del lavoro è stravolto, la società è cambiata come non avremmo mai potuto neppure prevedere solo pochi anni fa. L’Industria 4.0 è qui e ora. Tutto questo va ‘governato’.
Il cambiamento va accompagnato affinché i danni di oggi non si trasformino in quelli strutturali di domani.
Le radicali trasformazioni del mondo del lavoro, dalla Gig economy alle forme contrattuali atipiche, sembrano aver indebolito il ruolo dei sindacati, che come altri corpi intermedi appaiono in crisi di rappresentanza.
D’altra parte, i sociologi dicono che, nel tempo di una generazione, il 60% dei posti di lavoro tradizionali andrà perso. La competizione globale che si è innestata ha portato a una evoluzione importante non solo delle tecnologie, ma anche delle modalità di gestire le relazioni professionali. La partecipazione e il coinvolgimento dei dipendenti, così come la tutela del loro benessere, dipende sempre di più dalle aziende stesse.
Anche per i sindacati, dunque, si rende necessario un ripensamento del proprio ruolo: una via per riappropriarsi della rappresentanza potrebbe essere offerta proprio dal welfare aziendale, che è, a oggi, il principale ambito di confronto tra aziende e dipendenti.
Il primo ambito di intervento è senz’altro quello legato alla qualità del welfare stesso, che passa da un’attenta analisi dei bisogni dei dipendenti e arriva sino all’accompagnamento di essi nelle scelte di destinazione del proprio beneficio.
Nell’ottica della riforma delle pensioni, la prima difficoltà della generazione di lavoratori che andrà in pensione tra 15-20 anni sarà proprio legata al reddito da pensione, che sarà molto più basso dell’attuale retribuzione.
Esso, dunque, non sollecita “né in un senso, né in un altro, ma informa il lavoratore dei suoi diritti e anche dei suoi doveri in merito. Risponde a ogni sua domanda, tuttavia non entra nel merito di una decisione che è privata”.
Andare oltre al benessere momentaneo
I più ‘fragili’, da questo punto di vista, sono i giovani, la cui crescente precarietà lavorativa li ha indotti a concentrarsi sui benefici immediati, anche del welfare, più che su una visione prospettica.
Il tasso di precariato tra i giovani è endemico e ha toccato percentuali che giungono alla quasi totalità del tasso di occupazione. Ciò che si sta creando non è buona occupazione: non è stabile, non garantisce diritti e produce solo doveri che rasentano la vessazione. Occorre trovare inquadramenti contrattuali tali da poter garantire anche un futuro pensionistico ai nostri giovani.
Per non parlare poi dell’enorme massa di lavoro ‘opaco’, in cui certe aziende fanno firmare contratti per svolgere mansioni che nulla hanno a che vedere con ciò che è scritto sulla carta, con ovvie conseguenze in termini stipendiali e contributivi.
Per questi giovani senza prospettive certe, il welfare aziendale, se opportunamente indirizzato, potrebbe davvero diventare fortemente di supporto e integrazione a quegli ammortizzatori sociali previsti dallo Stato per cui, pure, ci sono sempre meno risorse. Perché questo avvenga, è però necessario che il welfare erogato sia di qualità e non si limiti a quei benefit che, pur utili e apprezzati, apportano un benessere del tutto momentaneo.
La spinta per la qualità sociale del welfare aziendale
Perché sussista questa ‘qualità sociale’ del welfare, il sindacato può dare il suo contributo fattivo nel progettare il welfare aziendale.
Il welfare aziendale ha preso sempre più piede, diventando una voce pesante nei bilanci delle imprese che hanno intuito la vera portata di quello che, per noi, è un investimento prima ancora che un costo.
Tuttavia, il tema non va circoscritto a un mero discorso economico. Di fatto, il welfare aziendale è la traduzione plastica di come la stessa azienda concepisca il lavoro e di come dia valore ai suoi dipendenti: “Il welfare aziendale, se si vuole, è la filosofia concreta del come si vuole vivere il fare impresa”.
Infatti, ogni scelta – dal rimborso delle spese mediche per i figli dei dipendenti ai viaggi studio, dai corsi di inglese agli abbonamenti per il trasporto pubblico – indica il rispetto dell’impresa verso i suoi dipendenti. Siamo ben consapevoli che non si tratta di beneficenza, perché il fine ultimo di un’impresa è produrre ricchezza, ma rappresenta un investimento sul benessere dei lavoratori, con ricadute sulla famiglia e quindi anche sul territorio stesso.
Eppure se, per esempio, un genitore riesce meglio a conciliare i tempi di vita e lavoro, oppure se lavoratore alle prese con la cura di un familiare è messo nelle giuste condizioni, è un valore aggiunto per tutti. Per la famiglia, in primis, ma anche per la stessa azienda. Il benessere passa anche da qui. Ecco perché con il welfare aziendale si gioca un nuovo ruolo del sindacato.
La trattativa di secondo livello, incardinata nel contratto nazionale, è la vera sfida che ha di fronte un sindacato”: Il mondo del lavoro è stravolto, la società è cambiata come non avremmo mai potuto neppure prevedere solo pochi anni fa. L’Industria 4.0 è qui e ora. Tutto questo va ‘governato’.
Il cambiamento va accompagnato affinché i danni di oggi non si trasformino in quelli strutturali di domani.